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La vita, così come la conosciamo, ha luogo e si perpetua grazie a una continua serie di reazioni chimiche.

Il processo stesso della visione e interpretazione, che consente a chi sta leggendo queste pagine di capirne il significato, è possibile soltanto per via di eventi di natura chimica.

La luce, nelle sue varie gradazioni (in questo caso un bianco-nero molto netti), colpisce un certo punto della nostra retina, dove il segnale luminoso viene convertito in chimico da speciali recettori, i “coni” e i “bastoncelli” della vecchia terminologia anatomica: dall’interno di queste strutture viene liberata una certa sostanza, contenuta in apposite micro-sacche pronte all’uso, la quale diffonde nell’ambiente adiacente e raggiunge (in un tempo così piccolo da non essere umanamente percepibile) le propaggini locali del nervo ottico, che a loro volta “comprendono” il segnale chimico grazie a apparati sensibili (cioè capaci di interagire chimicamente proprio con quella sostanza) dislocati sulla superficie e in grado di trasformare il segnale chimico in elettrico.

Ma che cos’altro è un segnale elettrico se non la progressione di un’onda di elettroni, cioè una condizione, seppure un po’ particolare, ancora una volta di natura chimica? Il segnale viene ora fatto viaggiare, “in tempo reale”, fino a certe regioni cerebrali; qui nuovamente da elettrico viene ri-convertito in chimico grazie ad un processo identico a quello descritto prima, e poi di nuovo in elettrico e in chimico man mano che l’informazione viene trasmessa a tutte le cellule deputate a riconoscere e interpretare il codice visivo.

Il risultato finale di questo affascinante percorso è la “lettura”, cioè la comprensione di quel messaggio che, quando mi è stato chiesto di scrivere questo pezzo, le mie cellule cerebrali hanno elaborato (per mezzo di scambi, chimici, fra loro) e i miei muscoli hanno digitato su una tastiera (grazie all’ottimale controllo, chimico, della loro funzione contrattile) mentre il resto del mio organismo si occupava di digerire, far circolare il sangue, eliminare le scorie e chissà quant’altro (sempre ad opera di reazioni chimiche).

Affinché gli elementi costitutivi del nostro organismo possano interagire fra loro è necessario lasciarli nuotare in un ambiente nel quale venga favorito il contatto casuale, ma altamente probabile, di molecole differenti che abbiano la facoltà di scambiarsi fra loro dei componenti ( un atomo di carbonio, per esempio, magari unito a due di ossigeno e uno di idrogeno; oppure un atomo isolato di azoto; o forse soltanto, come nel passaggio di corrente elettrica, un singolo elettrone).

Naturalmente questo ambiente dev’essere costituito da una sostanza fluida, capace di sostenere le molecole contenute al suo interno senza disturbarle nel loro nuoto improvvisato, di farsi di lato per consentire il completamento di una reazione, o anche (se necessario) di cooperare a qualche altra reazione cedendo a sua volta una parte dei propri atomi strutturali. E in natura, almeno così come essa si presenta su questo pianeta, non esiste sostanza migliore dell’ACQUA per soddisfare tutte queste caratteristiche.

Buona, ovviamente!

Cioè priva di quelle sostanze, siano esse naturali (elementi pericolosi, come l’arsenico, a volte contenuti in grande quantità in alcune falde; residui di cadaveri animali caduti presso la sorgente; microrganismi responsabili di infezioni…) o artificiali (inquinanti industriali; antiparassitari e altri trattamenti agricoli…) che potrebbero svolgere un effetto tossico sul nostro organismo.

Ma anche dotata di un certo quantitativo di sali minerali (raccolti grazie alla minima erosione delle rocce durante il percorso a partire dalla caduta della pioggia-neve, poi lungo le vie sotterranee, fino alla sorgente), importanti per favorire la digestione e per integrare le scorte, a volte carenti negli alimenti solidi, di cui l’organismo ha un costante bisogno.

E infine caratterizzata da un gusto gradevole, che invogli a bere.

Lungi dall’essere “insapore”, come ci volevano convincere i maestri elementari (che però dicevano il vero per quanto riguarda il colore e l’odore), l’acqua possiede infatti un ben preciso ventaglio di caratteristiche gustative, ai due estremi del quale si pongono l’acqua di alta montagna, troppo povera di sali e quindi (lei, sì) insapore, e la ben più sgradevole acqua di acquedotti ad alto rischio infettivo, cioè fortemente clorata dalla mano dell’uomo proprio per prevenire questo rischio.

L’acqua “buona” si trova al centro di questa gamma.

Non esistono parametri assoluti circa la quantità di acqua da introdurre, che varia secondo il metabolismo (cioè la somma delle più volte citate reazioni chimiche) individuale.

Per garantire la digestione e utilizzazione di grandi quantitativi di alimenti da parte di un corpo giovane, di grosse dimensioni, che conduce un’ attività fisica fortemente dispendiosa di energia in un ambiente ad alta temperatura, occorrerà ovviamente un volume d’acqua che potrebbe raggiungere anche i dieci litri quotidiani; mentre un minuto organismo anziano, a bassa attività energetica in ambiente a temperatura gradevole e costante, si accontenterà di meno di due litri.

Naturalmente non tutta l’acqua di cui stiamo parlando deve essere direttamente bevuta, perché molta può (e anzi dovrebbe) venire “mangiata” attraverso cibi ad alto tenore umido, come i vegetali freschi che, secondo l’opinione condivisa dai nutrizionisti di tutto il mondo, dovrebbero costituire l’alimento quantitativamente più rappresentato nella nostra dieta di tutti i giorni.

Ne deriva che i bicchieri da ingerire durante una giornata potrebbero essere decisamente pochi.
Ma accade molto di frequente, soprattutto fra le persone anziane, che gli alimenti consumati abbiano un tasso umido troppo scarso, con rischio di blanda disidratazione (magari favorita anche dall’uso, frequentissimo, di farmaci) e conseguente rallentamento di tutte le attività detossificanti proprie di un organismo in buona funzione.

Non è quindi sbagliato invitare l’anziano, e con lui l’adulto o il giovane molto impegnati (che “non hanno tempo” per un buon pasto), ad assumere un modesto quantitativo supplementare di acqua.

Esposta così, la domanda potrebbe sembrare una provocazione.
Ma se ci riagganciamo al concetto di disintossicazione appena espresso dobbiamo ricrederci.

Le vie di eliminazione delle scorie tossiche, inevitabili prodotti del metabolismo, sono numerose:

  • Molte sostanze ormai alla fine del loro percorso metabolico vengono trattenute dal FEGATO, che si occupa di modificarne la struttura chimica in modo da renderla meno (o per nulla) pericolosa e di riversarle poi nell’intestino in forma di bile.Quest’ultima non si deve considerare soltanto un materiale di scarto: infatti esplica un importantissimo effetto di emulsionamento dei grassi alimentari che possono così venire ridotti ai loro minimi termini e quindi digeriti e infine assimilati dai villi intestinali.Anche una scoria in via di allontanamento, pertanto, può venire sapientemente utilizzata dall’organismo per qualche scopo importante!Un adeguato apporto di acqua, rappresentato in questo caso da un consistente flusso circolatorio al suo interno, è presupposto indispensabile per il buon funzionamento del fegato.
  • Ciò che non viene rielaborato nelle vie biliari finisce ai RENI i quali, con un sofisticatissimo sistema di filtraggio iniziale e successivo riassorbimento di sostanze ancora utili, concentrano i veleni metabolici nelle urine, equivalenti alle acque fognarie di una città.
    Va da sé che anche qui un buon apporto idrico garantisce un’azione filtrante ottimale.
  • Le GHIANDOLE SUDORIPARE o i POLMONI sono da considerare organi svelenanti accessori, ma non per questo inutili.

La loro funzione si attiva in condizioni particolari: la catarsi sudatoria, indotta per trattamenti curativi nelle grotte termali, che trascina fuori dal corpo molti composti pericolosi;
la liberazione a livello cutaneo di certe sostanze volatili prodotte in grandi quantità durante intensi stati d’animo (conosciamo tutti l’odore sgradevole emesso da una persona che ha subìto uno spavento);
la dispersione nell’aria di molecole a forte impronta odorosa, provenienti da un’alterata fermentazione intestinale e trasportate dal flusso sanguigno ai polmoni, che le rilasciano in forma di quel che si chiama “alito cattivo”.

Anche tutte queste attività disintossicanti abbisognano di un quantitativo adeguato della medicina acqua.

Domanda non oziosa, che trova risposta nella qualità dei cibi solidi.

Un pasto sufficientemente umido potrebbe non richiedere l’introduzione di acqua, soprattutto se la masticazione, quindi l’insalivazione di ogni singolo boccone, è prolungata.

Inoltre un quantitativo troppo elevato di acqua finirebbe per diluire i succhi digestivi, cioè rendere più difficile il contatto casuale tra i frammenti di cibo e gli enzimi (deputati al loro smantellamento in sotto-frammenti sempre più piccoli e quindi assimilabili).

All’opposto, un quantitativo scarso di acqua renderebbe il contenuto gastrico e duodenale troppo solido, con uguale effetto finale di maldigestione.

Pertanto, se proprio si decide di non seguire i criteri di natura e si opta per un pasto denso-asciutto, occorrerà corroborarlo con una discreta quantità di liquidi e una masticazione particolarmente minuziosa.

Negli altri casi, non subentrando il senso della sete a tavola, sarà adeguato introdurre liquidi a distanza dai pasti.

Una osservazione a parte meritano le bevande nelle quali l’acqua funge da veicolo per sapori molto più intensi.

Certo, in condizioni primitive gli esseri umani sopravvivono egregiamente senz’altri liquidi oltre a quello fornito dalla natura.

Ma, dal momento che viviamo in un contesto ad alta complessità, non possiamo ignorare o disdegnare aprioristicamente ciò che l’inventiva umana ha saputo produrre.

Le bevande fornite dalla tecnologia industriale moderna sono perlopiù da scartare in quanto ricche di zuccheri semplici (che accelerano il metabolismo energetico predisponendo al diabete e promuovendo l’obesità), coloranti (che ingannano il consumatore facendogli credere, per esempio, di avere a che fare con vero succo d’arancia quando invece si tratta di una soluzione “sporcata” di colore artificiale), aromatizzanti (altra forma d’inganno, dal momento che il gusto proprio del frutto non può essere percepito a causa della sua quantità irrilevante) e altri additivi (che fungono solo da stabilizzanti del prodotto, garanti cioè non già della sua qualità ma soltanto della sua vendibilità).

L’unica cosa veramente buona di questi alimenti finisce per essere l’umile solvente…l’acqua.

Diverse sono invece le considerazioni per la categoria di bevande antiche, di elaborazione tradizionale, in cui al ruolo pur sempre determinante dell’acqua si affiancano altre proprietà:

  • Infusi e decotti (tè, caffè, tisane) possono favorire la digestione e rendere più piacevoli certi momenti della vita.Occorre non abusare dei primi due, com’è universalmente noto.
  • Il vino e la birra esplicano effetti digestivi utili in presenza di proteine che richiedano una secrezione acida importante, come quelle della carne e del pesce, e garantiscono una certa protezione delle arterie. Ancora più evidente è la raccomandazione al non-abuso: un bicchiere durante un pasto proteico è una dose sostenibile, tre sono già tanti.
  • Ugualmente antico è l’uso dei superalcolici, ma non di nostra competenza per il bassissimo contenuto di acqua al loro interno (e in ogni caso da sconsigliare per la loro importante tossicità).

Sì: attenersi il più possibile alle regole stabilite dalla natura, che in milioni di anni di sperimentazione ha trovato le soluzioni in assoluto migliori.

E, perché no, ringraziarla di ciò che ha saputo fare per noi! “Laudato sì, mì Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et umile et praetiosa et casta” Francesco, il Matto divino